A Latina si è sempre parlato di un’aquila posizionata sulla torre del Palazzo M, ma mai nessuno era riuscito a trovare riscontro sui ricordi tramandati di padre in figlio, sembrava quasi fosse una leggenda. Poi qualche anno fa il mio amico Gianmarco Montemurro è riuscito a trovare due foto a testimonianza di quell’aquila, alta quasi quattro metri. La leggenda narra che la torre fosse poco più bassa del campanile della chiesa di Piazza San Marco, quasi un affronto per il duce. Così i dirigenti del partito fascista commissionarono, all’urbanista Oriolo Frezzotti, un’aquila da posizionare sulla torre per superare la madonnina. Alla fine del 1943 l’opera fu terminata, ma le cannonate arrivate dalle navi americane, all’inizio del 1944, fecero crollare l’aquila con tutta la torre. Su quell’aquila ci aveva lavorato un maestro marmista, lo scalpellino Ottavio Damiani.
Chi mi conosce sa quanto sia legato al Palazzo M, conosco un po’ tutta la sua storia e anche gli anfratti di quell’edificio. Da bambino mi sono calato diverse volte nelle sue viscere, un tempo rifugio antiaereo per i cittadini di Littoria. L’edificio fu uno dei primi bersagli dei cannoni americani. La torre, con l’aquila che capeggiava sulla sua sommità, venne centrata in pieno. Sotto di essa persero la vita venti persone, la gran parte di loro erano componenti della famiglia Gennaro. Dopo la guerra divenne rifugio per gli sfollati. Alla fine degli anni cinquanta venne destinato a scuola, per poi divenire negli anni novanta una caserma.
Ma veniamo alla storia di cui vi sto per raccontare. Era da qualche tempo che le statue delle Madri Rurali, poste nei giardini del Palazzo M, erano in via di restauro. Protette da un telo, i restauratori si davano da fare per farle tornare a splendere, così come le avevo conosciute nel 1968, quando i miei decisero di trasferirsi proprio di fronte a quel palazzo. La mia curiosità mi aveva portato ad affacciarmi per chiedere quanto altro tempo ci volesse per finire il lavoro.
Una giovane restauratrice, Elena Damiani, mi accolse con gentilezza. Per me che sono sempre a caccia di storie, il suo cognome mi era sembrato familiare: a Latina i cognomi spesso rievocano i mestieri. Poi mi era sfuggito, alla mia età purtroppo capita. Qualche settimana fa, mi è tornato in mente e il mio amico Massimo Porcelli, mi ha dato il contatto di Elena. Ed ecco la storia del maestro marmista Ottavio Damiani.
Ottavio Damiani, lo scalpellino di Littoria
Ottavio Damiani nasce l’8 ottobre del 1897 a Selvapiana, frazione di Bagno di Romagna, in provincia di Forlì. Per quei tempi studiare è un lusso, soprattutto nelle famiglie numerose, meglio lavorare. Ottavio già da bambino impara il mestiere di scalpellino, lavoro ereditato dalla sua famiglia. Fa esperienza nelle cave di Pietra Serena situate nelle vicinanze del suo paese. Il ragazzino promette bene e in poco tempo diverrà maestro di marmi.
Nel 1919, alla fine della prima guerra mondiale sposa Cecilia Para. Una ragazza sua compaesana, poco più giovane di lui. avranno nove figli, sette maschi e due femmine. Nella metà degli anni trenta, per la crisi economica, il lavoro dalle sue parti rallenta vistosamente e quando una ditta gli propone di lavorare a Roma, per un grosso progetto, parte senza pensarci troppo. Si tratta di costruire una zona nuova per l’EXPO Universale. Quella zona si chiamerà EUR. Tre anni di duro lavoro, ma di grande professionalità.
Verso la fine degli anni trenta termina il suo lavoro e per non rimanere disoccupato, decide di andare a vedere la nuova città di Littoria. Ha sentito dire che da quelle parti il marmo è molto usato, soprattutto da quando la città è stata elevata a Provincia. In effetti il lavoro non manca. Ottavio inizia subito a lavorare per una ditta che sta costruendo un palazzo a forma di emme che ospiterà la Casa del Fascio.
Intanto Cecilia, rimasta al paese, è sempre più insofferente. Ha otto figli da badare, e ha voglia di ricongiungersi con il marito. Così parte per Littoria senza avvisarlo. Ottavio, davanti al fatto compiuto, sa che sarà difficile trovare posto per una famiglia così numerosa. Carica tutti su un carrettino e, dallo scalo di Littoria, si dirige verso via Epitaffio dove un colono gli ha promesso di ospitarlo nel suo magazzino, ma quando vede arrivare quel carretto pieno di persone, si tira indietro.
Ma Ottavio ha previsto tutto, e punta diretto alla seconda soluzione. A Borgo San Michele, sono ancora in piedi i villaggi operai, ormai quasi del tutto abbandonati. Per l’emergenza, quelle stanze umide e rovinate, andranno più che bene. Ogni mattina il figlio Luigi accompagna in bicicletta la madre in prefettura, dove è stata assunta come donna delle pulizie, per poi recarsi a scuola, al liceo. Passeranno cinque lunghi mesi prima di ottenere una sistemazione dignitosa. Ad Ottavio assegnano un appartamento al IV lotto delle case popolari. Sono solo due stanze e cucina. Per undici persone è un po’ piccolina, ma per loro è una reggia, dopo aver vissuto nella bettola di Borgo San Michele.
Ottavio continua a lavorare al Palazzo M, ma il 10 giugno del 1940 l’Italia entra in guerra e i lavori iniziano ad andare a rilento. Ci vorranno altri tre anni per terminare l’edificio. Alla fine del 1943 viene poggiata un’aquila, progettata da Oriolo Frezzotti, sulla torre centrale. Un’aquila alta quattro metri. Ottavio, con il suo scalpellino, è addetto alle rifiniture. Tempo un paio di mesi e la guerra arriva anche a Littoria. Una delle prime cannonate colpisce proprio la torre con la sua imponente aquila.
Ottavio con la sua famiglia è costretto a sfollare. Trova riparo in un podere nella zona di Borgo San Michele. Il figlio Luigi fugge verso nord con le due sorelle, mentre il secondogenito, Alberto, si unisce ai partigiani. Finita la guerra la fame è tanta. Solo chi ha un pezzo di terra può ritenersi fortunato. Cecilia e Ottavio si rivolgono a Don Carlo Torello, parroco della chiesa SanMarco, che sta cercando di aiutare un po’ tutti. il piccolo grande prete gli concede un orticello all’interno dell’oratorio. Poi il lavoro riparte per la ricostruzione e Ottavio non è più disoccupato. Con grandi sacrifici riesce ad acquistare alcuni magazzini vicino lo stadio, pensando al futuro dei propri figli.
Cecilia invece imporrà a tutti di studiare, dal più piccolo al più grande dei suoi figli: Ugo, Alberto, Adriana, Fulvio, Ermenegildo (detto Depalmo, perché nato la domenica delle palme), Elio, Benito, Quirico ed Eliana nata a Littoria. Purtroppo Ottavio si ammalerà e il 10 agosto del 1953 verrà a mancare. Per la famiglia è una grande perdita. Tutti dovranno rimboccarsi le maniche. Fortuna che Depalmo ha imparato l’arte di suo papà. Dopo il diploma da geometra, trova lavoro nelle cave di travertino del commendator Vergara a Doganella di Ninfa, ma passati sei mesi si accorge che lavorare sotto padrone non è nella sua natura.
Depalmo quindi si organizza, coinvolge tutti i fratelli a partecipare alla piccola attività di famiglia, nella lavorazione del marmo, avviata dal padre. Inizia così la ditta eredi Damiani. L’unico a lasciare è il fratello Alberto, malato di TBC, perderà la vita poco tempo dopo. Inizialmente fanno piccoli lavoretti, ma nella metà degli anni cinquanta arriva il primo appalto importante: il rivestimento di un intero palazzo della TETI in viale Italia. Poi molte opere per gli edifici danneggiati dalla guerra, compreso il vecchio ospedale, ma anche lavori per il nuovo in costruzione.
Il 22 Settembre del 1959 l’architetto Oriolo Frezzotti commissiona alla ditta Damiani il monumento ai caduti, da lui progettato, che sarà posizionato al centro dei giardinetti pubblici di Latina. L’opera sarà realizzata tra il 1960 e il 1965 e verrà trasportata da Cisterna con mezzi speciali. Depalmo, con un lavoro paziente di mesi, realizzerà personalmente tutta la finitura rigata del monolite lungo quasi 17 metri, eseguita in cava con l’ausilio di pesanti frullini a mano e con martello e scalpello.
Frezzotti, prima del trasporto, deciderà di tagliare la punta finale del monolite, in quanto presenta un filo, ovvero un difetto nel materiale; lo spezzone rimarrà per anni presso il laboratorio marmifero dei Damiani, per poi essere trasportato, durante la giunta Finestra, in Piazza San Marco, come base per la copia della Pace del maestro Duilio Cambellotti, presente affianco all’Ex Opera Balilla. L’attività dei fratelli Damiani nella metà degli anni sessanta, per il grande sviluppo, si trasferirà in una nuova sede, vicino al cimitero. Negli anni settanta le attività si ampliano negli arredi cimiteriali. Un modello poi replicato in diversi cimiteri italiani.
Le aziende Damiani alla terza e quarta generazione
Il passaggio generazionale avverrà nel 1985 e nel 1990 l’ammodernamento dell’azienda che la dividerà in due: La Damiani marmi seguita da Paolo, e la Damiani costruzioni cimiteriali seguita da Ottavio, entrambi figli di Depalmo. Oggi la Damiani marmi ha un grosso stabilimento nella zona industriale di San Donato, ed è conosciuta in tutto il mondo. Collabora con i migliori brand: Bulgari, Chanel, Dior, Dolce e Gabbana… e con i più importanti architetti, dall’Oceania agli Stati Uniti, dall’Europa alla Russia. Un vanto per il territorio pontino.
Ringrazio per la disponibilità Paolo Damiani e il cugino Domenico figlio di Quirico. Ma soprattutto ringrazio la figlia di Paolo, la restauratrice delle Madri Rurali, Elena Damiani, per aver organizzato l’incontro ed avermi fatto conoscere una straordinaria storia che non conoscevo.