Questa è una storia di calcio antico, quando i bambini giocavano per strada, tra i vicoli di un paese, al massino all’oratorio. Ma è anche una storia di vita, come tante. La storia di un ragazzino che aveva quasi toccato il cielo con un dito, ma poi gli episodi, la vita sregolata, lo hanno riportato sulla terra dove tutti possono sbagliare. Può uno così diventare un simbolo di una squadra di calcio? Sì, perché poi è andata così. Aveva diciassette anni Gianfranco Mannarelli ed era a un passo dalla serie A, con la Roma, ma un infortunio e la sua testa, gli fecero perdere quel treno. Ho incontrato Gianfranco che mi ha raccontato la sua storia dal sapore antico, come quello delle figurine panini, quando i calciatori avevano facce da calciatori.
Mi è sempre piaciuto il calcio, da quando ero bambino. Con i miei amici giocavamo sul campo immaginario, al centro del Palazzo M. Era tutto immaginario, a cominciare dalle porte. Giocavamo sul brecciolino: ancora oggi porto i segni di quelle sbucciature sulle ginocchia. Ogni tanto andavamo a giocare all’oratorio ai tempi di sor Vincenzo, che chiamavamo tutti Sorvi.
Di tanto in tanto passava il nostro idolo, Luciano Melloni, che tirava qualche calcio con noi. Lui era il più forte giocatore del Latina, divenuto poi simbolo. Aveva rinunciato a categorie superiori per amore della maglia. Ma di giocatori simbolo ce ne sono anche altri. Ho già raccontato di lui, di Mario Cancellieri e Piero Di Trapano. Adesso è la volta di Gianfranco Mannarelli, altro simbolo della nostra squadra. La sua storia di calciatore partì tra le strade del Villaggio Trieste, quartiere storico di Latina.
Quel quartiere venne edificato per gli italiani d’Istria nel 1955. Ma quelle casette, che ora non ci sono più, non furono abitate solo dagli istriani, accolsero anche tanti sfollati di guerra, provenienti dai paesi del sud pontino distrutti dai bombardamenti.
La storia di Gianfranco Mannarelli, il bomber che perse il treno per la serie A
Gianfranco Mannarelli nasce a Latina il 2 maggio del 1960, ultimo di quattro figli. Il papà, Salvatore, è di Terracina: uno dei tanti sfollati, ospitati nell’ex caserma 82. Come anche la mamma, Iole Cellini, sfollata da Cori. I due si conoscono in quella ex caserma, dove gli ambienti sono separati solo da tende. I primi due figli, Aldemiro e Luigi, nasceranno proprio lì. Purtroppo, Luigi morirà di polmonite ad appena tre anni. Salvatore lavora alla SVAR e Iole fa la sarta. Le cose cambieranno in meglio, quando gli assegneranno una casetta al Villaggio Trieste.
Al Villaggio nascerà il terzo figlio; lo chiameranno Luigi, in memoria del figlioletto scomparso. Poi arriverà anche Gianfranco. Al Villaggio i bambini giocano per strada, perché non circolano tante macchine. Gianfranco, ha appena cominciato a camminare e già si diverte a dare calci al pallone. Anche quando cresce continua giocare, spesso da solo contro un muro, e sfascia pure qualche vetro.
Le scuole elementari le frequenta al Palazzo D’Erme, adiacente al Villaggio. Il papà, per non fargli fare altri guai, il pomeriggio lo manda a giocare al campetto dell’oratorio di San Marco. Lì si accorge di lui Don Orlando. Capisce che quel ragazzino, che dice troppe parolacce, ha delle potenzialità e lo porta ad allenarsi con i ragazzi più grandi, al COS, dove sono cresciuti Bruno Conti e Vincenzo D’Amico.
Nel 1973 Don Orlando, dopo essere stato autorizzato dal padre, lo porta con sé, per una decina di giorni ad Arcinazzo, per un ritiro spirituale e ricreativo, insieme ai lupetti e agli scout. In quei dieci giorni si diverte a giocare a calcio con i ragazzi più grandi che non riescono a fermarlo. Sguscia come un’anguilla e segna a ripetizione.
Quell’anno inizierà il campionato esordienti con il COS Latina. Il fratello Aldemiro lo indirizza da un suo amico allenatore, Gino Bondioli, in forza alla Fulgorcavi, centro sportivo dell’industria di cavi del genovese Aldo Dapelo, grande appassionato di calcio. Il centro, oltre ad ospitare la prima squadra che porta il nome della fabbrica, ospita anche il settore giovanile, tra i più importanti del Lazio.
Gianfranco Mannarelli verrà subito preso per partecipare al campionato giovanile. Giocherà in attacco. Fortuna vuole che nel campionato partecipino pure le giovanili della Lazio e della Roma. Contro le due squadre favorite, Gianfranco giocherà molto bene. Intanto fa un provino con il Latina, ma l’allenatore D’Aprano lo scarterà dopo alcuni esercizi. Sarà la sua fortuna. Un dirigente della Fulgorcavi lo avvisa che una volta la settimana dovrà allenarsi con le giovanili della Roma.
Dopo l’esperimento le due squadre si metteranno d’accordo: Gianfranco andrà in convitto ad Ostia. Ormai è un giocatore del vivaio della Roma. Nella stagione 76/77 andrà anche in ritiro con la prima squadra. Con lui Bruno Conti, Roberto Pruzzo, Agostino Di Bartolomei, e tanti altri campioni. L’allenatore è lo svedese Nils Liedholm che lo tiene d’occhio.
Nel 77/78 la A.S. Roma Primavera vincerà lo scudetto. Gianfranco Mannarelli sarà il capo cannoniere con ventidue reti. Sembrerebbe andare tutto per il meglio, ma nel secondo tempo dell’ultima partita, un infortunio al ginocchio gli precluderà l’esordio in serie A, all’Olimpico contro il Milan.
Oltre l’infortunio c’è anche la sua testa calda. Dal convitto spesso fugge per andare con gli amici e le tante ragazze che gli ronzano attorno. La signora che dovrebbe controllare, copre le sue marachelle. Verrà quindi dato in prestito al Piacenza che milita in serie C. Poi sarà ceduto al Siena, dove si perde nei bei locali della città. Anche se segna otto gol in quindici partite.
Nel 1980, arriva alla Juve Stabia. È l’anno del terribile terremoto in Irpinia. Metà dell’albergo, dove dimora, crolla. Molti giocatori, per paura andranno via da Castellamare, ma lui rimarrà con la squadra per non dare ulteriori dispiaceri ai tifosi. Purtroppo, la Juve Stabia retrocederà. L’anno successivo andrà alla Casertana, lì conoscerà la sua futura moglie, Rossella, da cui avrà l’unico figlio, Massimiliano. Giocherà poi al Brindisi e al Sorrento.
Nel 1986, una telefonata inaspettata: l’allenatore del Latina, Giancarlo Sibilia, lo chiama per averlo in squadra. Per lui, che ha il cuore neroazzurro, sarà un onore indossare la maglia della sua città. Al suo primo campionato, il Latina si classificherà secondo, ma l’anno successivo una disavventura societaria farà sprofondare la squadra. Con una nuova cordata di imprenditori, il Latina risalirà la china e Gianfranco, quell’anno, farà il record italiano di gol: ventisei in ventotto partite: il Latina giungerà terzo.
I tifosi inventeranno il coro: “Mannagol Mannagol tira la bomba tira la bomba”. Per lui saranno gli anni più belli della sua vita calcistica che terminerà proprio con il Latina nel 1992, dopo aver avuto brevi esperienze in altre squadre locali. Ultimata la carriera con il calcio giocato, Gianfranco Mannarelli diverrà direttore tecnico e lo sarà anche del Latina calcio.
L’incontro con Gianfranco Mannarelli
Io e Gianfranco ci conosciamo da sempre. Entrambi, ormai, abbiamo i capelli bianchi. Lo avevo visto tra il pubblico, alla presentazione del mio ultimo libro. Mi aveva sorpreso: non immaginavo fosse un mio lettore.
Gianfranco tu provieni dal Villaggio Trieste, un quartiere difficile a detta di tanti, tu come lo vivevi?
“È una leggenda questa del quartiere difficile. A parte quattro o cinque delinquentelli, si viveva tranquillamente. I bambini giocavano per strada e ci conoscevamo tutti. Io nel quartiere mi sentivo libero e andavo dove volevo. Giocavamo fino a tardi senza problemi”
Quanti vetri hai rotto nel quartiere con le tue “Bombe”?
“Tanti, ma devi sapere che con il mio primo stipendio sono tornato al Villaggio e li ho ripagati tutti”
Come hai vissuto i primi tempi di notorietà?
“Era una strana sensazione. Le persone mi fermavano per strada e venivo accolto anche nelle comitive più esclusive di Latina”
Qual è il momento della tua vita calcistica più importante?
“Quando mio padre malato di leucemia volle venire, nonostante la sofferenza e i tanti dolori, a vedere la finale all’olimpico per lo scudetto primavera. Per la prima volta lo vidi piangere con il pallone della finale tra le braccia. Mi disse: <<Rimani sempre umile e non ti scordare mai della tua famiglia e da dove vieni>>. La notte di Capodanno mio padre morì e lasciò un vuoto incolmabile”
Anche tu hai dovuto affrontare quella terribile malattia, quando è accaduto?
“Quasi vent’anni fa. Mi fecero un autotrapianto di midollo. Da allora faccio continui controlli. Per me è come vivere una seconda vita. Apprezzo ogni cosa”
A Vincenzino D’Amico eri molto legato, purtroppo lui non ce l’ha fatta
“A Vincenzo mi sono legato proprio nell’ultima parte della sua vita, ho sentito di dovergli stare vicino. Solo chi ha avuto l’esperienza della malattia, può capire fino in fondo cosa si prova. Conservo nel cuore tutte le nostre conversazioni”
Che squadra tifi?
“Solo Latina! Il mio cuore batte solo per lei”
Tu hai lavorato tanti anni come direttore tecnico del Latina, qual è, secondo te, il Presidente migliore che ha avuto?
“Senza ombra di dubbio Michele Condò. Persona straordinaria”
Progetti futuri?
“Ho intenzione di costituire, con il mio amico Pierluigi Palma, una scuola calcio. È assurdo che a Latina dopo D’Amico non sia uscito più nessun campione”
Hai qualche rimpianto?
“Forse con la testa di oggi avrei potuto fare una carriera diversa, ma va bene così. Sono stato graziato dal Signore e questo mi basta”
Quando un coro da stadio, per un giocatore, rimane nella testa di tutti e viene tramandato alle successive generazioni, allora quel giocatore diviene un simbolo, e Gianfranco Mannarelli lo è a tutti gli effetti.