L’8 settembre del 1943, venne firmato l’armistizio di Cassibile (frazione di Siracusa) detto anche armistizio breve, fu un atto che prevedeva la resa incondizionata del Regno d’Italia ai nuovi alleati. Più di un milione di soldati furono disarmati dai nazisti, tra l’Italia e i Balcani. Duecento mila riuscirono a fuggire, centottantamila si allearono con i tedeschi, e circa seicentocinquantamila furono presi prigionieri e deportati nei campi di concentramento. Tra questi ultimi, un ragazzo partito da Littoria, poco più che ventenne, di origine siciliana. Era un venditore ambulante, ma si ritrovò prigioniero in Prussia. Venne liberato solo alla fine della Seconda guerra mondiale. Si chiamava Giuseppe Cannizzaro. Il figlio Roberto ha trovato il suo diario ed è uscita questa storia.
Sono arrivato a questa storia, mentre ne cercavo un’altra. Tutto era cominciato a un funerale, di qualche anno fa, dove avevo incontrato l’amico Roberto Cannizzaro. Era morto un suo parente ed io avrei voluto scrivere la sua storia. In quell’occasione scambiammo solo qualche parola di circostanza. Prima di salutarci mi propose un incontro per mettermi a conoscenza della storia di suo padre, che riteneva molto interessante.
Qualche giorno fa mi è tornato in mente quel funerale e l’intenzione di scrivere del parente scomparso di Roberto. L’ho contattato e nel messaggio di risposta ho notato la delusione per essermi disinteressato a quella sua richiesta. Purtroppo, trascinato da tante altre storie, mi era passata di mente. Per farmi perdonare sono andato a casa sua, per vedere se la storia fosse veramente interessante.
Giuseppe Cannizzaro dal profondo sud della Sicilia a Littoria
Giuseppe Giorgio Cannizzaro nasce il 24 luglio del 1920 a Ragusa, la città più a sud della Sicilia. Primo di sette figli. Il papà ha il suo stesso nome e fa l’ambulante: vende bruscolini nei mercati e nelle fiere che si tengono nei paesi limitrofi di Ragusa. La mamma Rosa si occupa della famiglia. Dopo la quinta elementare inizia ad aiutare il papà.
Divenuto ormai ragazzo vorrebbe più indipendenza e magari guadagnare qualcosa in più. Suo zio Salvatore, fratello del padre, è andato a cercare fortuna nell’Agro Pontino da poco bonificato e dove è stata fondata una nuova città. Le cose per lo zio si sono messe bene: è riuscito ad aprire una ferramenta nel piccolo villaggio della stazione di Littoria. Giuseppe viene da lui invitato a raggiungerlo perché, da quelle parti, il lavoro non manca.
A sedici anni decide di trasferirsi dallo zio, che gli metterà a disposizione una bicicletta con il cestino davanti al manubrio. Giuseppe gira per i poderi della zona cercando di vendere la sua mercanzia: specchi, elastici e spille per capelli. Intanto i venti di guerra spirano sempre più forte e, nel 1941, sarà costretto a partire per il fronte. Nello stesso anno, lo zio Salvatore acquista un grande appartamento a Doganella di Ninfa, per ospitare il resto della famiglia di Giuseppe, molto preoccupato per la situazione in Sicilia, ormai non più tranquilla.
La sua destinazione è sul fronte slavo, al Quartier Generale Fanteria Sforzesca 73° Reggimento. Saranno mesi durissimi. I boschi sono gelati e le insidie di imboscate sono all’ordine del giorno. A salvarlo da quell’inferno sarà un banale virus intestinale. Il suo colonnello gli firmerà una licenza di dieci giorni. Giunto a Littoria riabbraccia la famiglia. Suo papà, a Cisterna, ha preso in gestione una trattoria. La mamma si occuperà della cucina e il padre di tutto il resto. Saranno giorni sereni con i suoi famigliari.
A Doganella abita pure Anna Quilli, una ragazzina di dodici anni, originaria di Cori. A Giuseppe piace, anche se lui è molto più grande. Ma tanto è in partenza: ci penserà al ritorno, se riuscirà a salvare la pelle. Appena rientrato nel suo reggimento, apprende di una circolare dove si chiede la disponibilità ad arruolarsi al corpo dei paracadutisti. Giuseppe, stanco di stare sul fronte slavo, con alcuni commilitoni inoltra la domanda. Dopo qualche giorno di attesa sarà accettata.
In attesa della partenza rimarrà a Trieste per tre settimane. Appresso solo uno zaino, il mandolino e altre piccole cose. Un suo amico sergente, triestino, lo ospiterà nella casa dai suoi genitori e sarà trattato come un figlio: un letto comodo, viveri e vestiti borghesi prestati dall’amico sergente. Poi il trasferimento a Bologna per le visite di idoneità. Giuseppe e qualche altro commilitone passeranno le prove. Gli altri, non idonei, saranno rispediti sul fronte slavo.
Entrerà in forza, nel campo dei paracadutisti di Tarquinia. Per tre mesi, ogni settimana, passerà quattro giorni consecutivi di dura formazione e altri due a casa. Poi gli verrà comunicata l’imminente partenza per l’Africa. Ma ancora una volta Giuseppe sarà graziato dal cielo. Una febbre altissima, il giorno prima della partenza, lo bloccherà in infermeria. I suoi compagni d’armi partiranno, ma al loro arrivo saranno accolti dagli africani a colpi di mitra: sarà una carneficina.
Giuseppe dovrà tornare a Trieste, nel suo reggimento. Ma prima di partire infrange le regole: trascorrerà dieci giorni dai suoi, rischiando la corte marziale per diserzione. A Trieste, dopo aver ascoltato le sue giustificazioni, sarà perdonato da due ufficiali. Gli verrà dato l’incarico di assistente per un capitano, molto ricco, di origine tedesche. Per mesi una vita agiata, ma poi, con la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943, Giuseppe e i suoi commilitoni, dopo un impari conflitto a fuoco, saranno fatti prigionieri dai tedeschi e deportati in Germania, nella Prussia orientale.
Giuseppe inizialmente andrà ai lavori forzati per la costruzione di rifugi antiaerei, dopodiché in un campo di concentramento e poi in una miniera di carbone. Infine, in una grossa industria dove si costruisce una parte del potente missile V2, vanto dell’esercito tedesco. Ma lì Giuseppe commetterà un errore di manovra e sarà accusato di sabotaggio. Sarà frustato e picchiato a sangue.
Dal diario di Giuseppe Cannizzaro:
“Avrei tante cose da dire e da raccontare riguardo la mia prigionia. A circa cinquecento metri da noi vi era il campo chiamato Buchenwald dove vi erano gli ebrei. Uomini, donne, bambini, vecchi, giovani, li torturavano e si sentivano le loro grida. I grandi forni crematori funzionavano giorno e notte”
Nel 1945 la guerra finisce e, finalmente, Giuseppe può fare ritorno a casa. La ragazzina conosciuta a Doganella è ora una ragazza di quindici anni. Le confessa che in quegli anni terribili l’ha sempre pensata. A febbraio del 1946 si sposeranno. All’inizio abiteranno in uno stabile per gli sfollati, di fronte al rifugio antiaereo (Oggi Piazza Santa Maria Goretti). Poi in un garage delle case popolari del settimo lotto.
Il padre ha ceduto la trattoria ed è tornato al vecchio mestiere: vende bruscolini e dolcetti allo stadio e alle feste patronali. Giuseppe, invece, farà i mercati settimanali nella provincia di Latina, con un banco di confezioni e abbigliamento uomo-donna. La licenza degli ambulanti, n°12, la intesterà alla sua giovane moglie, da cui avrà quattro figli: Santino, Rosanna, Roberto e Maurizio. I due sposini lavoreranno sempre insieme. Negli anni Cinquanta, per arrotondare, farà la maschera al cinema Giacomini, appena costruito.
Giuseppe lavorerà senza mai raggiungere quella serenità economica desiderata, a causa di tre grossi furti subìti nel corso della sua vita lavorativa. Tre camion con tutta la merce all’interno. Mollerà il lavoro al raggiungimento della pensione, lasciando il banco al figlio Maurizio. Morirà l’8 agosto del 2000.
Il figlio Roberto racconta la scoperta del diario di suo papà Giuseppe
Roberto Cannizzaro sul tavolo mi ha fatto trovare diversi fogli, scritti di pugno dal papà. Erano le sue memorie, soprattutto del periodo bellico. La moglie di Roberto, Stefania, si è prestata nella lettura. Man mano che leggeva mi sono sentito sempre più dentro a quella storia, come se stessi entrando in quelle pagine ingiallite dal tempo. Roberto quel diario lo ha trovato solo dopo la morte di sua mamma, avvenuta nel 2019. Sì, la storia meritava di essere raccontata.
Roberto, tuo papà è stato un grande lavoratore, aveva qualche altra passione?
“Mio padre suonava la chitarra e scriveva canzoni, una passione durata tutta la vita. E poi amava andare a pesca, ma solo il mercoledì, perché era il suo giorno di riposo”
Hai lavorato con lui?
“Sì, da giovane, ma è stato molto difficile. Ci scontravamo sempre. Poi, quando ho trovato un’altra sistemazione ha deciso di lasciare il banco a mio fratello Maurizio, per godersi la pensione”
Raccontami del suo diario e cosa hai pensato quando lo hai letto
“Quando è morta mia mamma, nel 2019, abbiamo trovato le sue memorie. Ventitré pagine scritte a mano. Leggendo, ho rivalutato molto la figura di mio padre. Così ho deciso di scrivere al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e al Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Mi sono informato e ho capito che avrebbe potuto avere un riconoscimento perché deportato in Germania nei lager nazisti. Così, il 15 gennaio di quest’anno, mi è arrivata la missiva dal Prefetto di Latina che comunicava del conferimento della Medaglia d’Onore, consegnata poi il 27 gennaio, data del Giorno della Memoria”
Speranza, guerra, sacrifici, passioni, discese, risalite e un unico grande amore. Il vissuto di Giuseppe Cannizzaro meritava di essere raccontato a questa città… che sta perdendo la sua umanità.
I just wanted to thank you from the bottom of my heart. I am writing to you from Ontario, CANADA. I am Roberto Cannizzaro’s daughter. I am impressed and pleased of how you told and explained my grandfather’s story and I know it means the world…especially for my father whom doesn’t have the best health. I know that what you did will have an incredible impact in my family’s existence and for this I will always be thankful and remember your name from far and wide. Thank you again…I can’t wait to show to my own kids about their grate grandfather’ s story. Kind regards Sara Cannizzaro.